Che cosa significa avere una “cultura dell’errore”? In sintesi, la risposta è: definire un modo per cercare di migliorare sempre il lavoro che si fa.
A molti di noi è stato “inculcato” che sbagliare “è il male”, ma più onestamente e lucidamente, un errore è una parte del processo.
Non c’è lavoro, incluso quello giornalistico, che ne sia esente e ragionare su come comportarsi, tra colleghi e rispetto al proprio pubblico, quando se ne verifica uno, è un modo per trarre dei vantaggi, a partire dalla consapevolezza, dall’accaduto.
Il rischio di sbagliare, da manuale di giornalismo, andrebbe limitato con dosi massicce di verifica, per quel che riguarda i contenuti, e di riletture, per quel che riguarda la forma.
Queste regole base, ovviamente, valgono anche per noi che curiamo un daily briefing: “Chi ha pubblicato per primo la notizia?”, “Le versioni concordano?”, “E se no, qual è quella più completa?” sono domande quotidiane che ci poniamo mentre selezioniamo gli articoli da linkare.
E poi: attenzione alla traduzione – billion vuol dire miliardo, trillion invece bilione o milione di milioni, se preferite – o al correttore che, false friend, trasforma il premier indiano Narendra Modi in Merenda Modi (aveva fame, forse? Non lo abbiamo ancora capito con certezza!), che suona come un simpatico personaggio da fumetto disneyano, ma, ahinoi, è un po’ poco informativo.
Non per cercare scuse, ma in questo campo la sveglia presto e la chiusura tardi sono altri compagni di viaggio da tenere d’occhio.
Di fronte all’ineluttabile rischio, perciò, abbiamo provato a costruire una nostra “cultura dell’errore”, che parte da presupposto che l’errore può capitare, frutto magari di un momento di distrazione, ma poi è necessario e, a determinate condizioni, anche fruttuoso, saperlo gestire.
Le riflessioni che abbiamo fatto finora si possono riassumere in questi quattro punti:
Una cultura dell’errore, in conclusione, è un metodo per aumentare lo spessore del proprio modo di lavorare.